Not in my name

Intervento di Giovanni Bachelet alla direzione nazionale PD del 4 giugno 2013

All’inizio della scorsa legislatura, da deputato, ho riproposto la “messa in sicurezza” della Costituzione tramite rafforzamento dell’articolo 138. Identico disegno di legge costituzionale fu presentato al Senato da Oscar Luigi Scalfaro, presidente del comitato del referendum 2006 e poi, dal 2007 al 2012, dell’associazione “Salviamo la Costituzione: aggiornarla, non demolirla”, della quale sono tesoriere. Firmarono quel disegno di legge anche Zanda e Finocchiaro, allora capogruppo. Anche Bressa e Soro, allora capogruppo.

Dico “riproposto” perché il copyright è di Bassanini ed Elia: per primi, nel 1994, avevano formulato una revisione del 138 che metteva la Costituzione al riparo da riforme a colpi di maggioranza, non impossibili dopo la nuova legge elettorale maggioritaria; quella volta anche Napolitano aveva aggiunto la firma. Anche Fassino. Anche Veltroni.

E’ chiaro che elevare il quorum per le revisioni costituzionali aumenta il potere delle minoranze; ma proprio questo –scrivevamo nella relazione– è l’obiettivo: evitare che le regole di tutti restino nelle mani della sola maggioranza di governo; tutelare l’opposizione pro-tempore (noi nel 1994, Berlusconi nel 1996, oggi Grillo, domani chissà); risparmiare brutte avventure a un Paese dove giornali e tv nelle mani di un politico hanno già introdotto un grave squilibrio costituzionale de facto, impensabile nel resto d’Europa.

Dal 1994 in poi una simile “messa in sicurezza” è stata via via riproposta (le ultime due volte con maggioranza qualificata innalzata a 2/3 per l’approvazione e 4/5 per evitare il referendum), ma purtroppo mai discussa in Parlamento.

La procedura di revisione auspicata dalla mozione parlamentare della scorsa settimana però, malgrado i miglioramenti, va ancora in verso opposto rispetto alla “messa in sicurezza”. Come le leggi costituzionali 1/93 (commissione bicamerale Iotti-DeMita) e 1/97 (D’Alema), essa introduce una deroga all’art. 138; in piú, richiama accelerazioni e modifiche globali della II parte della Costituzione; infine, soffre di una macroscopica aggravante politica: nel 1993 e 1997 il dialogo sulle riforme istituzionali avveniva fra forze una al governo e l’altra all’opposizione, mentre stavolta sono tutte e due al governo e l’opposizione è tagliata fuori dalla trattativa. Non è una differenza da poco.

Non amo il presidenzialismo e non è facile introdurlo a forza di revisioni parziali basate sull’articolo 138: ci vorrebbe, dicono in molti, una nuova Assemblea Costituente. So però che gli USA e la Francia sono grandi democrazie; che Calamandrei ed altri Costituenti del Partito d’Azione preferivano il regime presidenziale a quello parlamentare. Sarei quindi disposto a discuterne, ma solo dopo aver costituzionalizzato, tanto per dirne una, le norme sul conflitto di interessi, come diceva Rosy Bindi sull’Unità di venerdí scorso; passo necessario anche in caso di premierato forte. Poiché, a meno di credere alla Befana, la probabilità che Berlusconi accetti simili condizioni è prossima a zero, è urgente, anziché dividersi sul merito, formare il fronte piú ampio possibile che (come fece Scalfaro fondando nel 2005 il comitato del referendum) con il massimo garbo dica un fermo no a un metodo che, oltretutto, non ha portato fortuna: tutte le bicamerali sono finora naufragate; tutte le revisioni costituzionali compiute finora hanno seguito l’ordinaria procedura del 138, inclusa la grande riforma del Titolo V.

Con la “doppietta” parlamentare di mercoledí scorso –il PD approva la mozione PD-PDL sulle riforme istituzionali e boccia il ritorno al Mattarellum (mozione Giachetti)– salgono a 4 le scelte post-elettorali che mi sembrano sostanzialmente incompatibili con gli impegni presi dal PD in campagna elettorale. Le altre due sono l’accordo preferenziale con Berlusconi sul Presidente della Repubblica e il governo PD-PDL (che alla direzione PD dello scorso 23 aprile, insieme ad altri 21 fra i quali Bindi e Civati, non ho approvato con il mio voto). Dopo questo “poker” per me sconcertante, avendo già lasciato il Parlamento a marzo, sarei tentato di dimettermi anche dalla direzione. Poiché però (incredibile ma vero) qui in direzione PD su questa riforma costituzionale non c’è stato ancora dibattito, forse è meglio non dimettersi e pretendere invece un vero dibattito, combattere, verificare l’ampiezza del dissenso.

Last but not least. Dopo una furibonda campagna elettorale che a Roma, oltre al grande risultato del nostro candidato sindaco, ha per la prima volta portato una donna come prima degli eletti PD in Comune, Estella Marino, chiarisco che domenica prossima voterò Ignazio Marino perché è cento volte meglio di Alemanno. Ma diffido chiunque dall’arruolare questo mio voto come voto favorevole alle larghe intese (né al Governo né, tanto meno, sulle riforme costituzionali). Alle larghe intese, l’unica volta che in direzione ci è stato chiesto un parere, il mio non è stato favorevole. Resto tuttora vivacemente contrario. La presenza di una minoranza dichiarata e combattiva non è una debolezza, è la forza e la cartina al tornasole di un partito davvero democratico. Larghe intese solo con Berlusconi? Pure sulla Costituzione? No, grazie. Not in my name.