Mettere in sicurezza la Costituzione

di Giovanni Bachelet

All’inizio della scorsa legislatura, da deputato del gruppo PD, ho riproposto da primo firmatario la “messa in sicurezza” della Costituzione tramite rafforzamento dell’articolo 138. Simultaneo e identico disegno di legge costituzionale fu presentato al Senato da Oscar Luigi Scalfaro, presidente del comitato del referendum 2006 e poi, fino alla morte, dell’associazione “Salviamo la Costituzione. Aggiornarla, non demolirla.” della quale sono stato e sono tesoriere. Firmarono quel disegno di legge anche Zanda e Finocchiaro.

Dico “riproposto” perché il copyright è di Bassanini ed Elia: per primi, nel 1994, avevano formulato una revisione del 138 che metteva la Costituzione al riparo da riforme a colpi di maggioranza, non impossibili dopo la nuova legge elettorale maggioritaria; quella volta anche Napolitano aveva aggiunto la firma.

E’ chiaro che elevare il quorum per le revisioni costituzionali aumenta il potere delle minoranze; ma proprio questo –scrivevamo nella relazione– è l’obiettivo: evitare che le regole di tutti restino nelle mani della sola maggioranza di governo; tutelare l’opposizione pro-tempore (il centrodestra nel 1994, il centrosinistra nel 1996, oggi il M5S, domani chissà); risparmiare brutte avventure a un Paese dove giornali e tv nelle mani di un politico hanno già introdotto un grave squilibrio costituzionale de facto, impensabile nel resto d’Europa.

Dal 1994 in poi una simile “messa in sicurezza” è stata via via riproposta (le ultime due volte con maggioranza qualificata innalzata a 2/3 per l’approvazione e 4/5 per evitare il referendum), ma purtroppo mai discussa in Parlamento. Attenzione: con queste nuove soglie diventerebbe poi piú difficile ogni modifica, gradita o sgradita: dal monocameralismo all’articolo 7, dall’articolo 29 al Titolo V del 2000, che ha costituzionalizzato sussidiarietà, autonomia regionale e autonomia scolastica (confermato dal referendum 2001 con 5 milioni di voti di scarto, diversamente dalla riforma Berlusconi, bocciata con 6 milioni di voti di scarto nel 2006). Piú difficile, ma non impossibile. Barriere alte ci sono in Germania e in molti paesi UE; chi ha visto il film Lincoln ricorderà che addirittura, negli USA, le modifiche costituzionali richiedono 2/3 del Congresso solo per essere avviate; malgrado ciò, in 230 anni, ne sono passate 27 (l’ultima nel 1971).

Invece la procedura di revisione auspicata dalla mozione parlamentare della scorsa settimana, malgrado i miglioramenti, va ancora in verso opposto rispetto alla “messa in sicurezza”. Come le leggi costituzionali 1/93 (commissione bicamerale Iotti-DeMita) e 1/97 (D’Alema), essa introduce una deroga all’art. 138; in piú, richiama accelerazioni e modifiche globali della II parte della Costituzione e soffre di una macroscopica aggravante politica. Nel 1993 e 1997, infatti il dialogo sulle riforme istituzionali avveniva fra forze una al governo e l’altra all’opposizione, mentre stavolta sono tutte e due al governo, e l’opposizione è tagliata fuori dalla trattativa. Non è una differenza da poco.

Non amo il presidenzialismo e non è facile introdurlo a forza di revisioni parziali basate sull’articolo 138: ci vorrebbe, dicono in molti, una nuova Assemblea Costituente. So però che gli USA e la Francia sono grandi democrazie, e che Calamandrei ed altri Costituenti del Partito d’Azione preferivano il regime presidenziale a quello parlamentare. Sarei quindi disposto a discuterne, ma solo dopo aver costituzionalizzato, tanto per dirne una, le norme sul conflitto di interessi, come diceva Rosy Bindi sull’Unità di venerdí scorso. Poiché, a meno di credere alla Befana, la probabilità che Berlusconi accetti simili condizioni è prossima a zero, è urgente, anziché dividersi sul merito, formare il fronte piú ampio possibile che (come Scalfaro nel 2005) con il massimo garbo dica un fermo no a un metodo che, oltretutto, non ha portato fortuna: tutte le bicamerali sono naufragate e tutte le revisioni costituzionali compiute hanno seguito l’ordinaria procedura del 138.

Con la “doppietta” parlamentare di mercoledí scorso –il PD approva la mozione riforme PD-PDL e boccia il ritorno al Mattarellum– salgono a 4 le scelte post-elettorali incompatibili con gli impegni presi dal PD in campagna elettorale. Le altre due sono l’accordo con Berlusconi sul Presidente della Repubblica e il governo PD-PDL (che alla direzione PD dello scorso 23 aprile, insieme ad altri 21 fra i quali Bindi e Civati, non ho approvato con il mio voto). Dopo questo sconcertante “poker”, lasciato il Parlamento a marzo, sarei tentato di dimettermi anche dalla direzione. Ma PD+SC+PDL+Lega arrivano a 234 Senatori, la maggioranza di 2/3 necessaria ad approvare senza referendum questa prima legge costituzionale è 212, i Senatori PD che hanno firmato il “documento Monaco” sono 23 (oltre ad altrettanti deputati, fra cui Bindi e Civati). Poiché (incredibile ma vero) in direzione PD su questa riforma costituzionale non c’è stato ancora dibattito, forse è meglio non dimettersi e invece pretendere un vero dibattito, combattere, verificare l’ampiezza del dissenso.

Cosí, mentre chiarisco che domenica prossima a Roma voterò Marino perché è cento volte meglio di Alemanno, mentre diffido pubblicamente il mio partito dall’arruolare questo mio voto a favore delle larghe intese (né al Governo né, tanto meno, sulle riforme costituzionali), chiedo a chi legge di aiutare chi dall’interno combatte per riportare al piú presto il PD sulla retta via, per il bene della nostra cara Italia.

Bologna, 2 giugno 2013, Festa della Repubblica

[testo di un discorso mai pronunciato]