VERSO UNA FORMA DI GOVERNO SENZA CONTRO-POTERI?

VERSO UNA FORMA DI GOVERNO SENZA CONTRO-POTERI?*

di Alessandro Pace

Se venissero approvati sia il modello prefigurato dal d.d.l. cost. Renzi-Boschi, sia il d.d.l. elettorale denominato “Italicum”, avremmo come risultato – in conseguenza della diversa composizione delle due Camere, della notevole diversità di attribuzioni e della diversa fonte di legittimazione (popolare l’una, indiretta l’altra) – un “monocameralismo” – dominato dal PD e/o dall’esistente coalizione di partiti – privo di contro-poteri.

Grazie all’Italicum basterebbero infatti all’attuale coalizione di maggioranza 26 senatori oltre ai 340 deputati derivanti dall’Italicum, perché, dopo il terzo scrutinio, essa possa disporre della maggioranza relativa sufficiente (366 parlamentari) per eleggere anche il Presidente della Repubblica. Date le maggioranze politiche attualmente esistenti nei consigli regionali, ancor più semplice dovrebbe essere, per la maggioranza di governo se non anche per il solo PD, riuscire ad eleggere tutti e i cinque i giudici costituzionali, posto che il “futuro” art. 135 non prevede, diversamente dall’attuale1, che essi siano eletti dal Parlamento in seduta comune, di talché basterebbe la maggioranza relativa per la loro elezione sia alla Camera (tre) che al Senato (due).

La Camera, oltre ad essere titolare esclusiva del rapporto di fiducia col Governo, sarebbe titolare pressoché esclusiva della funzione legislativa in quanto l’esercizio collettivo col Senato è limitato, a seguito di emendamenti votati in commissione, all’approvazione delle sole seguenti leggi: leggi costituzionali2; leggi di attuazione in materia di referendum popolare; leggi di autorizzazione dei (soli) trattati relativi alla partecipazione dell’Italia all’UE; leggi che danno attuazione alla legislazione statale in materia elettorale e di eleggibilità.

Per il resto, le altre competenze in materia legislativa che il “nuovo” art. 70 attribuisce al Senato sono più illusorie che effettive: a) perché gli emendamenti da esso approvati ai disegni di legge approvati dalla Camera, oltre ad essere sottoposti a condizioni temporali iugulatorie, sono facilmente superabili dal voto contrario della Camera; b) perché i disegni di legge da esso approvati su talune materie di sua competenza (disciplinate dagli artt. 114 comma 3; 117 comma 2 lett. u] nonché commi 4, 6 e 10; 118 comma 4; 119; 120 comma 2 Cost.) sono comunque superabili dalla Camera dei deputati, a maggioranza assoluta, il che, se il sistema elettorale fosse l’Italicum, non richiederebbe particolari difficoltà.

Una siffatta concentrazione di potere in capo ad un solo organo e ad una sola coalizione (per non dire in capo ad un solo partito ed al suo leader) è impensabile in una democrazia liberale: una forma di Stato che presuppone la doverosa esistenza di “contro-poteri” (nella specie, il Senato), come ebbe ad affermare lo stesso Presidente Napoletano nel discorso per il 60° anniversario della Costituzione, prendendo le distanze dal semipresidenzialismo francese, una delle cui più rilevanti caratteristiche, e cioè il criticatissimo “voto bloccato”3, è stato previsto, ciò nondimeno, nel d.d.l. cost. Renzi-Boschi4.

La concentrazione di potere in favore della Camera dei deputati e della coalizione di maggioranza costituisce una scelta consapevole del d.d.l. Renzi-Boschi. Ciò è comprovato dal reiterato rifiuto del Presidente del Consiglio alla contro-proposta di ridurre bensì di 350 il numero complessivo dei parlamentari come da lui voluto, ma distribuendo equamente tale riduzione tra Camera e Senato e confermando però l’elettività di quest’ultimo. Ebbene Renzi si è opposto non solo alla riduzione dei deputati ma – come sembra da recentissimi interventi riportati dalla stampa – anche all’elezione di secondo grado dei senatori (introdotta con l’emendamento Finocchiaro-Calderoli) per non parlare dell’elezione diretta che invece sarebbe giustificata dalla sia pur limitata competenza del Senato in materia legislativa.

La soluzione portata avanti dal Presidente del Consiglio è non quella di modificare il bicameralismo paritario, tesi quasi generalmente condivisa, ma quella, esplicitamente sottolineata nei giorni scorsi, di annullare del tutto il ruolo del Senato in quanto potenziale contro-potere: obiettivo al cui fine convergono la limitata effettiva partecipazione alla funzione legislativa5 (appena un po’ migliorata in commissione) e la carente legittimazione popolare. Di legittimazione popolare del Senato non può infatti parlarsi non solo alla luce della proposta iniziale che prevedeva i senatori-consiglieri regionali ma nemmeno con la c.d. elezione di secondo grado, per cui è ragionevole, allo stato attuale, riconoscere ai futuri senatori la sola insindacabilità delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni e non anche l’immunità personale.

A mio modo di vedere il bicameralismo ancorché non paritario meriterebbe invece di essere conservato:

– in primo luogo, perché le presunte lungaggini del procedimento legislativo sono smentite da statistiche condotte in tempo non sospetto dagli uffici del Senato della Repubblica con riferimento alla XVI legislatura6;

– in secondo luogo, perché dell’utilità (se non addirittura della necessità) della c.d. “navetta” lo stesso Renzi potrebbe essere chiamato a testimoniare avendo più volte ad essa fatto ricorso. Sta di fatto – come sottolineato da Gustavo Zagrebelsky – che se la navetta si rende talvolta necessaria per riparare a veri propri errori, altre volte, come di recente avvenuto al Governo Renzi, si approva un dato d.d.l. allo scopo di alleggerire la tensione politica, nel presupposto condiviso che poi si ridiscuterà il tutto. Ci si deve quindi chiedere: in mancanza della seconda lettura, cosa accadrebbe in futuro in caso di errore o di ripensamento? Si dovrà presentare un nuovo d.d.l. per inserire le modifiche oppure le future leggi saranno approvate “con riserva di modifica”, da apportare entro un dato termine da parte di un comitato ristretto?!

In terzo luogo, il Senato non dovrebbe essere “ridotto” a mera Camera delle autonomie territoriali, il che è oltretutto smentito dal fatto che esso parteciperebbe all’approvazione di tutte le eventuali modifiche della Carta costituzionale e non solo di quelle relative al Titolo Quinto.

Sviluppando uno spunto prospettato da Massimo Luciani – e ferma restando l’opportunità della previsione del potere di richiamo in talune materie (quali i beni culturali e l’istruzione) – potrebbe invece prospettarsi che la funzione legislativa vada esercitata collettivamente dalle due Camere quanto meno con riferimento a dati “tipi” di legge. Oltre alle leggi costituzionali e alle leggi di revisione costituzionale potrebbero perciò rientrare nella legislazione bicamerale le leggi di amnistia e di indulto, le leggi previste dall’art. 81 comma 6 Cost., le leggi di autorizzazione di tutti i trattati internazionali (e non solo quelli relativi all’UE), le delibere dello Stato di guerra o situazioni ad esso equiparabili (abbiano o meno tali atti la forma di legge), le leggi di delegazione nelle materie rientranti nella competenza legislativa del Senato e infine le leggi di conversione dei decreti legge, questo potendo essere un efficace deterrente alla tentazione dell’abuso dei decreto legge a cui lo stesso governo Renzi, nonostante i buoni propositi di cui alla modifica dell’art. 77 Cost., ha reiteratamente ceduto.

1 V. l’art. 3 l. cost. n. 2 del 1967 che prevede per l’elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento in seduta comune, per i primi tre scrutini, i 2/3 dei componenti e, dal quarto scrutinio, i 3/5 dei componenti del Parlamento..

2 Questa competenza era già prevista nel testo originario del d.d.l. cost. n. 1429 del 2014 AS.

3 A.A. Cervati, Appunti sul procedimento di approvazione delle leggi con “voto bloccato” nella Quinta Repubblica francese, in Giut cost. 1969, 2711 ss. Merita di essere ricordato che fu addirittura un preoccupato Leopoldo Elia a suggerire al’a. di affrontare il discutibile istituto parlamentare della V Repubblica.

4 Per critiche sul punto v. A. Manzella, La riforma e le garanzie, ne la Repubblica, 4 aprile 2014.

5 Con il che si riprodurrebbe in Italia, a ben vedere, la sudditanza che caratterizza in Spagna il Senado rispetto al Congreso de los diputados, sudditanza criticata non solo in dottrina, ma dallo stesso Consiglio di Stato spagnolo, nel parere del febbraio 2006, reso con riferimento alle modifiche da apportare alla Costituzione spagnola. Il parere, tradotto in italiano, è reperibile nel dossier n. 64 del novembre 2006 a cura degll’Ufficio Studi del Senato.

6 V. i dati riportati dalle Note Brevi nn. 10 e 11 del giugno 2013 del Sevizio Studi del Senato che smentiscono le leggende sulle lungaggini del processo legislativo bicamerale.

* Intervento al seminario sul tema «Democrazia costituzionale ed equilibrio dei poteri. Le aporie della riforma costituzionale», organizzato dalle associazioni Comitati Dossetti, Giuristi democratici, Libertà e Giustizia ed altri tenuto a Roma l’8 luglio 2014. L’intervento tiene conto dello stato degli emendamenti approvati dalla Commissione Affari costituzionali del Senato alla data del 4 luglio 2014.