Riforme senza senso: la Carta non è merce di scambio

Pubblicato su “il Fatto Quotidiano” 13.7.13 

RIFORME SENZA SENSO: LA CARTA NON E’ MERCE DI SCAMBIO

Intervista al Prof. Alessandro Pace di Silvia Truzzi

Agli occhi di un cittadino, quel che accade alle Camere può sembrare un ozioso rompicapo da giuristi. Invece quella che sembra una sciarada lontana dai problemi delle persone, potrebbe avere effetti dirompenti sulla vita democratica del Paese. Lo spiega bene Alessandro Pace, professore emerito di diritto costituzionale alla Sapienza, commentando il disegno di legge 813: “E’ la sola Costituzione – ovvero la legge fondamentale della Repubblica che è posta al vertice dell’ordinamento – che ha il potere di indicare le vie per la propria modifica. Ne segue che il procedimento di revisione costituzionale, per essere legittimo, deve essere quello prescritto dalla Carta. Se questo potere lo avessero invece le norme di revisione, al vertice dell’ordinamento non ci sarebbe più la Costituzione, ma le norme sulla revisione, il che significa che il Parlamento, come sta accadendo, si porrebbe al di sopra della Costituzione”.

Dicono che è solo una deroga all’articolo 138.

Ma quale deroga! Si ha una deroga solo quando una norma speciale si sostituisce ad una norma generale. Ma qual è nella specie la norma speciale e qual è la norma generale? La norma speciale, e cioè il disegno di legge 813, se divenisse legge, modificherebbe il nostro ordinamento. Per contro la norma generale, e cioè l’art. 138, si rivolge solo al Parlamento in ipotesi tutt’altro che frequenti.

Gli emendamenti approvati dal Senato hanno peggiorato il testo iniziale?

Sì, sotto tre punti di vista. Il primo è l’articolo 2, comma 1, in cui è sparita l’espressione “modifiche afferenti alle materie della forma di Stato, della forma di governo e del bicameralismo”. E’ bensì vero che almeno i primi due sono concetti vastissimi e forse anche un po’ scivolosi. Tuttavia, bene o male, ci facevano intuire in quale direzione si sarebbero dovute muovere le Camere nel rivedere la Costituzione. Lasciando la sola indicazione dei titoli I, II, III e V il perimetro delle possibili revisioni costituzionali si allarga invece notevolmente: si estende infatti a ben 69 articoli!

In secondo luogo, al successivo comma 2,  la possibilità di revisione viene addirittura estesa a tutte le disposizioni della Costituzione o di leggi costituzionali strettamente connesse alla revisione dei quattro titoli sopra indicati, il che vuol dire che potrebbe essere coinvolto anche il titolo IV, e cioè la magistratura, per non parlare della Parte prima. Ad esempio mi è giunta voce che tra i c.d. saggi gira la voce di riformare anche la disciplina del referendum abrogativo.

Qual è la terza cosa?

L’articolo 2 comma 3 dice che i Presidenti del Senato e della Camera assegnano o riassegnano al Comitato i progetti di legge costituzionale relativi alle materie di cui ai quattro titoli che siano stati “presentati alle Camere a decorrere dall’inizio della XVII legislatura e fino alla data di conclusione dei suoi lavori”. Il che implica un possibile ulteriore allargamento qualora questi progetti di legge – che forse qualcuno dei parlamentari che ha proposto questo emendamento conosce assai bene – coinvolgano la Parte prima e, perché no?, il titolo IV della Parte seconda. Spero che almeno resti fuori il titolo VI, relativo alle Garanzie costituzionali.

E così salterebbero le garanzie. 

Appunto. I costituenti misero nel titolo VI della Parte seconda, insieme alla Corte costituzionale, il procedimento di revisione costituzionale proprio perché essa costituisce una garanzia per la Costituzione in quanto dovrebbe adeguarla alle mutate domande provenienti dalla società o dalla politica, mentre così la revisione si risolve in un rischio per la Costituzione.

Vogliono accorciare i tempi del procedimento di revisione, temendo che la legislatura non duri abbastanza.

Sbagliatissimo. Per definizione, i tempi della revisione non possono essere gli stessi del procedimento ordinario. In Assemblea costituente si sottolineò, ad esempio, l’importanza dell’intervallo di tre mesi tra la prima e la seconda deliberazione che ora viene dimezzato a 45 giorni.

La scusa è che la materia è complessa, forse la verità è che non si vuole dar fastidio alle larghe intese.

Se davvero si volesse modificare la Costituzione come questa consente, e cioè con singole leggi costituzionali dal contenuto omogeneo e specifico, non ci vorrebbe molto tempo ad approvarle, sempre che vi fosse la volontà politica. Ma se si prevede un procedimento speciale, come questo, con una legge costituzionale madre e quattro leggi costituzionali figlie quanti sono i titoli oggetto di revisione, il tempo si fa ovviamente lungo e quindi il procedimento viene, come dice la relazione, “crono-programmato”, il che contraddice alla natura delle leggi di revisione.

Ma c’è un altro inconveniente. L’articolo 4 comma 2 del ddl dispone, giustamente, che “Ciascun progetto di legge è omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico”. Una volta però che siano state tolte le indicazioni di massima “forma di Stato”, “forma di governo” e “bicameralismo” dove va a finire l’omogeneità delle quattro leggi costituzionali figlie, potendo queste potenzialmente modificare 69 articoli?

E le larghe intese?

Ma le larghe intese sono materie di indirizzo politico, non di revisione costituzionale. Non a caso il proponente del ddl è il Governo, il cui intervento ha senso per le larghe intese, ma nessun senso per la riforma della Costituzione. Mettere sullo stesso piano revisione della Costituzione e legge elettorale andrà pure nel senso della pacificazione e delle larghe intese, ma è distorsivo sotto il profilo della revisione costituzionale: la sua importanza politica diviene infatti merce di scambio a detrimento della Costituzione.