Lettera ai candidati alla Presidenza del Consiglio

Ai candidati alla Presidenza del Consiglio

nelle elezioni politiche del febbraio 2013

On. avv. Angelino Alfano,

On. dott. Pierluigi Bersani

Dott. Oscar Giannino

Sig. Beppe Grillo

Dott. Antonio Ingroia

Sen. prof. Mario Monti

On. prof. Giulio Tremonti

Loro sedi

Roma, 28 gennaio 2013

Gentili signori,

Vi scriviamo a nome della Associazione “Salviamo la Costituzione, aggiornarla non demolirla” che raccoglie coloro che promossero il referendum costituzionale del 25-26 giugno 2006.

Da varie parti, la prossima legislatura è stata definita come una legislatura “costituente”. Si tratta di una definizione tecnicamente imprecisa; ma essa sottolinea l’esigenza – indiscutibile – di riforme di struttura, coraggiose e impegnative.

Tra le riforme previste, alcune concernono le istituzioni (a partire dalla legge elettorale), e anche qualche disposizione della Carta costituzionale. Ci permettiamo di sottolineare l’esigenza che siano date agli elettori, sul punto, informazioni precise circa i programmi e i propositi di ciascuno di voi e delle forze politiche che ciascuno di voi rappresenta.

Nel referendum del giugno 2006, una larga maggioranza di italiane ed italiani ha voluto riaffermare che la Costituzione repubblicana resta il fondamento della nostra democrazia, la tavola dei principi, dei valori e delle regole che stanno alla base della convivenza comune. L’esito di quel referendum non preclude naturalmente limitate e puntuali modifiche costituzionali, purché coerenti con i principi e i valori della Costituzione repubblicana e compatibili con il suo impianto e i suoi equilibri fondamentali.

Il referendum del 2006 ha anche sancito la condanna di riforme costituzionali “di parte” approvate a colpi di maggioranza. La Costituzione – come Voi ben sapete – è di tutti, garantisce i diritti e le libertà di tutti, anche delle minoranze; dovrebbe essere modificata solo con il consenso di tutti, o comunque di una larga maggioranza. Noi siamo convinti che con quel voto il popolo sovrano abbia dunque affidato al Parlamento un compito: ristabilire il principio della supremazia e della stabilità della Costituzione; mettere fine alla stagione delle riforme costituzionali “di parte”; approvare perciò una modifica dell’articolo 138 della Costituzione che, alzando la maggioranza prevista per l’approvazione di leggi di revisione costituzionale, e rendendo sempre possibile il referendum popolare “confermativo”, renda impossibili modifiche costituzionali imposte a colpi di maggioranza. Si otterrebbe, in tal modo, il risultato di mettere finalmente “in sicurezza” la Costituzione della Repubblica, così come è da tempo stabilito in altre grandi democrazie. Proposte di legge in tal senso, sottoscritte da parlamentari di diversi gruppi, sono state presentate nel corso della XV e XVI legislatura, tra gli altri dal compianto Oscar Luigi Scalfaro.

Per queste ragioni, ci permettiamo di segnalarVi l’esigenza di esprimere con precisione la vostra posizione e le vostre intenzioni su queste due questioni essenziali. Per parte nostra, i risultati del referendum costituzionale del 2006 (che noi promuovemmo) e le preoccupazioni dei nostri soci (raccolti in molti circoli in ogni parte del Paese) ci obbligano moralmente e politicamente non solo a rappresentarVi queste preoccupazioni, ma anche a operare per far conoscere a tutti i nostri concittadini le opinioni e i propositi dei candidati premier e delle forze politiche che partecipano alla competizione elettorale.

Vi saremmo perciò molto grati se voleste chiarire anche a noi i vostri intendimenti e i vostri programmi sulle due questioni, rispondendo ai due quesiti seguenti (che sinteticamente riassumono le nostre preoccupazioni):

1. Proporrete e sosterrete, nella prossima legislatura, un disegno di legge di modifica dell’articolo 138 della Costituzione che elevi a due terzi la maggioranza necessaria per l’approvazione parlamentare delle leggi di revisione della Costituzione e consenta in ogni caso a 500.000 elettori di chiedere il referendum confermativo sul testo approvato? Proporrete che ciò valga per qualunque legge di revisione costituzionale, senza distinzioni tra la prima e la seconda parte della Costituzione(*)?

2. Pensate di potere assumere l’impegno di assicurare la coerenza delle riforme istituzionali che Voi proporrete o sosterrete con i principi e i valori della Costituzione del 1948 e la loro compatibilità con i suoi equilibri fondamentali, e dunque con i principi della forma di governo parlamentare?

Per parte nostra, assumiamo l’impegno di portare a conoscenza degli elettori, le risposte che ciascuno di Voi vorrà inviarci (o, quanto meno, quelle che ci perverranno entro il 15 febbraio in modo da contribuire alla libera scelta elettorale di ciascuno dei nostri concittadini.

Ringraziando per l’attenzione, Vi inviamo i nostri migliori saluti

 Alessandro Pace (presidente dell’Associazione “Salviamo la Costituzione”), Giovanni Bachelet, Francesco Baicchi, Renato Balduzzi, Franco Bassanini, Luigi Bobba, Sandra Bonsanti, Gianclaudio Bressa, Italo Buono, Maurizio Chiocchetti, Domenico Gallo, Valerio Onida, Giordana Pallone, Francesco Pardi, Maria Paola Patuelli, Giorgio Santini, Maurizio Serofilli, Carlo Smuraglia, Maria Troffa (componenti del comitato direttivo dell’Associazione)

(*) Alleghiamo un appunto del prof. Gustavo Zagrebelsky nel quale sono illustrate le ragioni per le quali è “tecnicamente” impossibile limitare la “messa in sicurezza” della Costituzione alla sola prima parte della stessa.

L’unità della Costituzione, le riforme costituzionali e la revisione dell’articolo 138

Nota di Gustavo Zagrebelsky

Tutte le Costituzioni sono opere dotate di senso unitario: lo sono per il concetto stesso di Costituzione. Se non lo fossero – se cioè fossero scindibili in parti indipendenti – non “costituirebbero” un bel niente. Il senso di una parte potrebbe essere messa contro il senso dell’altra e, introducendosi “sensi” diversi, si farebbe opera non di costituzione ma di distruzione. Questo vale in generale e, in particolare, vale con riguardo alla distinzione tra la prima e la seconda parte della nostra Costituzione. Non è vero che si può modificare una delle due parti, lasciando intatta l’altra.

Gli esempi non sono difficili da trovare.

Primo. L’art. 1 riconosce, come corollario della democrazia, che “la sovranità appartiene al popolo”, che “la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Il popolo è un concetto complesso, di sintesi del pluralismo. Non è un concetto unitario, olista, come nella democrazia di Rousseau. La sua rappresentanza politica richiede certe condizioni. Supponiamo – per assurdo – che si abolissero le camere rappresentative (seconda parte della Costituzione); o che – più facilmente immaginabile – le camere venissero depotenziate al punto che il loro ruolo fosse reso solo formale o lo si riducesse al punto di essere chiamate a esprimere un sì o un no alle proposte del governo; oppure, che il sistema elettorale portasse a risultati di schiacciamento delle minoranze e di iperrappresentazione o di rappresentazione totale ed esclusiva della maggioranza: supponiamo tutto questo. Diremmo forse che queste modifiche dirette (con modifiche costituzionali) o indirette (attraverso legge elettorale) non influiscono sull’art. 1 della Costituzione?

Secondo. L’art. 2 riconosce i diritti inviolabili della persona umana e gli artt. 13 e seguenti prevedono una serie di diritti specifici. La protezione di tali diritti è rimessa a istituzioni la cui disciplina sta nella seconda parte della Costituzione: innanzitutto la Corte costituzionale e l’insieme dell’organizzazione giudiziaria. Immaginiamo che si ponga mano alla composizione della Corte, ai suoi poteri, ai mezzi che i cittadini hanno di accedere a essa; oppure che si stabiliscano forme di soggezione della magistratura al potere e agli indirizzi della politica (governativa o parlamentare). Diremmo forse che tali modifiche non influiscono sui diritti che rappresentano uno dei contenuti principali della prima parte della Costituzione?

Terzo. L’art. 5 stabilisce, come criteri organizzativi fondamentali, l’autonomia e il decentramento; l’art. 6 protegge le minoranze linguistiche. Sono questi principi insensibili a modifiche che possano riguardare il Titolo V della seconda parte della Costituzione, oppure la struttura del Senato, come organo delle autonomie?

Quarto. L’art. 3 della Costituzione, che prevede il principio di uguaglianza, oltre che nel suo lato formale anche in quello sostanziale, e gli artt. 32 e 34 che prevedono la salute e l’istruzione come diritti sociali, sarebbero insensibili a modifiche della seconda parte della Costituzione, circa il potere di spesa e i limiti dell’indebitamento dello Stato, delle Regioni e degli enti locali? E sono forse insensibili alle riforme che possano interessare l’articolazione sul territorio dei poteri, centrali, regionali e locali in materia fiscale?

Sono solo esempi. Essi dimostrano ciò che non si potrebbe disconoscere: la prima parte della Costituzione, che contiene principi fondamentali di sostanza, non è indipendente dalla seconda, che contiene le norme organizzative che servono a farli valere o che, comunque, ne condizionano l’attuazione.

La distinzione sulla quale – credo – ci si dovrebbe attestare con molta chiarezza non è dunque tra “parti” della Costituzione ma tra i suoi fondamenti sostanziali e organizzativi, da un lato, e le loro regole attuative, dall’altro: fermi i primi, sulle seconde si può certamente discutere, perché le modifiche e gli adeguamenti (ad es. del Senato, alla nuova struttura decentrata dei poteri pubblici; del governo, alle esigenze di efficienza della sua azione; delle maggioranze di garanzia, alla logica bipolare, ecc.) sono certamente possibili e, in diversi casi, anche utili purché inseriti in una legge costituzionale dal contenuto puntuale ed omogeneo.

Ciò che si chiede è dunque un chiaro impegno al mantenimento, nella sua essenza, della Costituzione che abbiamo (con tutti i perfezionamenti che si possono ritenere opportuni). È chiaro che, in concreto, potranno sorgere contrasti interpretativi sulla portata di questa o quella proposta di innovazione, se essa stia entro o sia fuori di questa Costituzione. Penso ad es. al tema del rafforzamento dell’azione di governo o, come si dice, del premierato. Ma sarebbe già un fatto di chiarificazione se si accettasse la premessa che, al Parlamento, i poteri e le garanzie che oggi gli spettano in generale (la legislazione, il controllo sul governo – sfiducia, costruttiva o non costruttiva, compresa -; lo scioglimento come strumento di garanzia, non di lotta politica) non potranno essere sottratti, quali che siano le innovazioni riguardanti il governo, i poteri del presidente del Consiglio, i meccanismi a favore della razionalizzazione degli schieramenti politici in Parlamento. Aggiungerei, in questa prospettiva, la richiesta di un impegno a favore (oltre che della riduzione numerica) anche della qualità della rappresentanza che si esprime nelle due Camere, una qualità che, oggi, rischia di rendere la difesa dei poteri e delle prerogative del Parlamento una azione, per quanto nobile alla stregua dei sacri principi del costituzionalismo liberal-democratico, assai poco dotata di senso, in relazione alle sue condizioni concrete.

Sono queste posizioni di retroguardia, che si possono bollare come quelle dei soliti “parrucconi” da parte degli altrettanti soliti “innovatori”? No. Sono esclusivamente scelte di politica costituzionale, alle quali si contrappongono altre scelte, anch’esse di politica costituzionale che, come tali, devono essere valutate. La contrapposizione “vecchio” e “nuovo” è totalmente priva di significato in materia costituzionale: essa nasconde diversi modi di concepire i rapporti in questa materia e su questi modi come tali, non perché vecchi o nuovi, ha senso fare chiarezza.