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IL METODO (SBAGLIATO) DELLA RIFORMA
Note critiche del d.d.l. cost. n. 813 Sen.
Alessandro Pace
1. Se si parte dall’idea secondo cui la previsione di uno speciale procedimento di revisione costituisce la conferma, ma non il fondamento, della rigidità costituzionale[1] – la cui causa va piuttosto individuata nella superiorità della costituzione stessa su tutti gli atti che compongono l’ordinamento, così come formalizzata in uno o più documenti ufficiali[2] -, la disciplina del procedimento per la revisione di una costituzione scritta e rigida non può che spettare alla costituzione stessa, esplicando, tale procedimento, la funzione di garantirne la rigidità[3] sotto un triplice aspetto.
In primo luogo la previsione di un procedimento speciale (aggravato) di revisione evita la fragilità politica delle costituzioni scritte che altrimenti sarebbero assolutamente immodificabili[4], e quindi potrebbero essere modificate solo con la violenza[5]. In secondo luogo la previsione di un procedimento speciale garantisce la relativa stabilità delle preesistenti regole scritte della costituzione[6]. Infine il procedimento aggravato non esclude, ma solo limita, il principio rousseauiano che ogni generazione deve essere in grado di affrontare tutte le decisioni fondamentali richieste dalle circostanze del tempo[7] (che però nelle costituzioni del secondo dopoguerra non di rado incontra limiti assoluti in nome di valori che si assumono eterni o comunque politicamente insopprimibili[8]).
L’individuazione del «punto di equilibrio tra quanto, del “vecchio”, deve comunque essere conservato (le norme assolutamente irrivedibili) e la disponibilità, più o meno ampia, all’apertura verso il “nuovo”» [9] spetta quindi, in esclusiva, alla Costituzione. Sostenere il contrario – e cioè che la scelta tra le infinite variabili di tempo, di contenuto e di procedimento spetti alle stesse leggi di revisione -, significherebbe che “norme supreme” nel nostro ordinamento sono le leggi di revisione[10] e non la Costituzione.
2. Di qui talune conseguenze d’ordine strutturale.
a) La prima conseguenza è l’inderogabilità delle norme sulla revisione. Una cosa infatti è la deroga di una norma (sostanziale o procedimentale), altra cosa è la deroga se riferita al procedimento di revisione costituzionale. Nel primo caso la deroga opera come un’eccezione alla regola[11]: esplica cioè conseguenze su una determinata fattispecie a favore o contro uno o più soggetti. Nel caso del procedimento di revisione costituzionale la deroga puntuale (o, come suole dirsi, una tantum) esplica invece indirettamente effetti permanenti per tutti i cittadini, attuali e futuri. Pertanto il rapporto eccezione-regola qui non spiega alcun rilievo. Le norme sulla revisione costituzionale sono fonti “sulla” produzione normativa condizionanti il modo di formazione (e quindi il contenuto stesso) delle fonti “di” produzione, e cioè le eventuali future norme sulla forma di governo, sul numero dei parlamentari, sul bicameralismo, sui rapporti Stato-Regioni ecc. che a loro volta avranno una portata generale e che, ciò nonostante, verrebbero approvate secondo una procedura contrastante con quella prevista dall’art. 138.
Né si dica che si tratterebbe di una “rottura” dell’art. 138 Cost. in forza di una legge costituzionale. Quanto fin qui argomentato dimostra infatti che il d.d.l. cost. n. 813 non può essere considerato norma di deroga in quanto l’approvazione delle leggi costituzioni “figlie”, grazie al procedimento derogatorio previsto dalla legge costituzionale “madre”, produrrebbe effetti “permanenti” e “generali” sul nostro sistema costituzionale. E quindi, quand’anche si ammettesse – del che personalmente dubito[12] – che il nostro ordinamento costituzionale contempli la possibilità delle leggi costituzionali “in deroga o in rottura”, il d.d.l. cost. n. 813 non sarebbe qualificabile come una legge costituzionale “in deroga o in rottura” in quanto le leggi costituzionali “in deroga o in rottura” sono tutt’al più ammissibili solo se “provvisorie”, “temporanee” e “puntuali”[13]. Il che non è il caso del d.d.l. cost. n. 813, così come non lo era la legge cost. n. 1 del 1997[14].
D’altra parte, quand’anche si volesse ammettere che le leggi costituzionali “in rottura” non siano “anche in deroga”, e quindi potrebbero spiegare effetti duraturi nel nostro ordinamento[15], deve recisamente obiettarsi a chi sostiene questa tesi che il d.d.l. cost. n. 813 non determinerebbe affatto, come invece si soggiunge ex adverso, una «circoscritta frattura dell’armonia della Costituzione, di contenuta lesione della sua unità»[16]. A tal fine è infatti sufficiente riflettere sull’entità delle conseguenze che si produrrebbero sul nostro ordinamento se venissero approvate le leggi costituzionali “figlie”, in particolare la modifica della forma di governo in semipresidenziale, a seguito di un procedimento di revisione non rispondente all’art. 138 Cost.
Siamo quindi in presenza di un uso illegittimo del potere di revisione. E sul punto non occorre aggiungere altro[17].
b) La seconda conseguenza è che le norme sulla revisione possono bensì essere modificate ma ad una condizione. Essendo il procedimento di revisione “strumentale” e “servente” della rigidità della Costituzione, la relativa modifica non deve pregiudicare la rigidità rendendo più facile l’iter di eventuali modifiche costituzionali. Questo però non significa che ogni maggiore irrigidimento sia comunque legittimo. Bisogna infatti previamente verificare se vi siano dei contro-limiti all’ulteriore irrigidimento[18]. Così è, ad esempio, nel nostro ordinamento costituzionale che riconosce e proclama la sovranità popolare, per cui alzare eccessivamente l’asticella dei limiti della revisione significherebbe limitare il contro-limite derivante dal principio rousseauiano sopra ricordato, secondo il quale ogni generazione dovrebbe poter decidere del proprio destino[19].
c) In terzo luogo, le revisioni “totali” – alle quali vanno equiparate le modifiche costituzionali dal contenuto disomogeneo – in tanto sono ammissibili in quanto siano specificamente previste in Costituzione[20]. Qualora il procedimento di revisione non distingua le revisioni “totali” da quelle “puntuali”, la possibilità delle prime dovrebbe essere esclusa in via di principio in quanto essa costituirebbe esercizio surrettizio di potere costituente (come tale inammissibile, per definizione)[21]. Ne consegue che un ordinamento potrebbe bensì prevedere positivamente una revisione per così dire “totale” a due condizioni: 1) che siano previsti determinati limiti[22] incompatibili, come tali, con il “vero” potere costituente[23]; 2) che la procedura per tale revisione “totale” sia positivamente differenziata in maniera netta da quella della revisione “puntuale”. Contro le revisioni “totali”, ove non esplicitamente previste in Costituzione (come appunto nella nostra Costituzione), vi è comunque l’ostacolo della carente omogeneità e specificità della legge di revisione (v. sub d).
d) In quarto luogo, laddove, come nella Costituzione italiana, esista la giuridica possibilità che la legge di revisione sia soggetta all’approvazione da parte del popolo, essa, per rispettarne la sovranità, deve essere formulata in maniera tale da non coercire in un senso o nell’altro la volontà dei cittadini. Conseguentemente il testo delle leggi di revisione, almeno nel nostro ordinamento, deve essere chiaro, omogeneo nonché specifico[24]. Quando la sola omogeneità potrebbe nascondere la differenza delle tematiche sottoposte al referendum confermativo.
e) Infine le revisioni costituzionali devono imporre sempre tempi di riflessione adeguati all’importanza delle decisioni da assumere. Infatti «ogni revisione costituzionale costituisce un intervento, un’operazione su un organismo vivente ed essa dovrebbe essere attuata solo con grande tutela e con estrema parsimonia».[25] In tal senso si espresse appunto l’on. Perassi nell’illustrare, in Assemblea costituente, il suo emendamento poi pressoché integralmente recepito nel vigente art. 138[26]
3. Il d.d.l. cost. n. 813 intitolato Istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali, presentato dal Presidente del Consiglio e dai Ministri per le riforme costituzionali e per i rapporti con il Parlamento, comunicato alla Presidenza del Senato il 10 giugno 2013 e attualmente in discussione in sede referente, si ricollega alle leggi costituzionali n. 1 del 1993 e n. 1 del 1997[27] entrambe fortemente criticate in dottrina. Ancorché, come dirò subito, il Governo ha evitato, col d.d.l. cost. n. 813, molti degli errori che inficiavano quelle leggi costituzionali, ha invece reiterato la più grave delle violazioni costituzionali. Ancora una volta è stata infatti «prevista una procedura una tantum, in deroga e non in modifica permanente del testo costituzionale»[28].
È invece positivo che al citato Comitato parlamentare per le riforme siano stati attribuiti solo poteri referenti, e non redigenti come quelli pensati[29] per la c.d. Convenzione[30]; che ogni progetto di legge costituzionale dovrà essere omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto; che il referendum confermativo non sia previsto come “necessario”; che il referendum confermativo sulle leggi costituzionali modificative della Costituzione possa essere richiesto anche qualora nella seconda deliberazione esse siano state approvate con la maggioranza dei due terzi dei componenti (art. 5)[31].
Le perplessità che solleva il d.d.l. cost. n. 813 si risolvono quindi esclusivamente nella violazione dell’art. 138 e sono le seguenti.
In primo luogo, e come già si è detto, è stata prevista per la terza volta una procedura straordinaria manifestamente derogatoria dell’art. 138 la cui contraddittorietà al 138 disvela lo sviamento di potere di cui il d.d.l. cost. n. 813 è viziato. Se infatti si è ritenuto, anche questa volta, di non proporre la modifica dell’art. 138, ciò vuol dire che il proponente (il Governo) riteneva l’art. 138 tuttora rispondente alle sue finalità istituzionali (quelle, cioè, di adeguare la Costituzione alle mutate esigenze storiche, sociali e politiche). Ma se questa era l’opinione del Governo, che bisogno c’era di derogarlo tanto più che la procedura del d.d.l. cost. n. 813 è più macchinosa di quella prevista dal 138? Il motivo è evidente: la procedura dell’art. 138 viene elusa al fine di poter modificare surrettiziamente la Costituzione con un procedimento speciale che, pur concretizzandosi in una pluralità di autonomi progetti di legge costituzionale, ha una portata fortemente modificativa del nostro ordinamento determinata dall’interdipendenza dei vari progetti di legge (v. infra in fine).
In secondo luogo, il d.d.l. cost. n. 813 – che assume la veste di legge costituzionale “madre” nella quale sarà disciplinato l’iter procedimentale delle singole leggi costituzionali di riforma (le “figlie”) – solleva perplessità per il fatto che il procedimento speciale di revisione sembrerebbe “guidato” dal Governo. Ed in effetti i proponenti del d.d.l. cost. n. 813 sono stati (come nel precedente d.d.l. cost. Berlusconi del 2005) il Presidente del Consiglio e i Ministri delle Riforme e dei Rapporti col Parlamento, laddove era ben noto che la revisione della Costituzione esula, per definizione, dall’indirizzo politico di maggioranza. Ma non basta. Per la prima volta, che io sappia, il Governo, e non il Parlamento, è coadiuvato da un comitato di esperti «con funzione consultiva». Quanto alla procedura di approvazione delle leggi costituzionali “figlie”, altrettante perplessità suscita l’inusitato regime “privilegiato” del Governo per la presentazione degli emendamenti che viene equiparato ai poteri spettanti allo stesso Comitato (presentazione possibile fino a quarantotto ore, anziché cinque giorni, prima dell’inizio della seduta in cui è prevista la votazione degli articoli e degli emendamenti l’esame degli articoli o degli emendamenti: art. 3 comma 3).
In terzo luogo, quanto alla composizione, il Comitato parlamentare per le riforme sarà costituito da venti deputati e da venti senatori, ma a tal fine non si prescrive – come si sarebbe dovuto – che esso debba rispecchiare la complessiva consistenza numerica dei gruppi (così l’art. 72 comma 4 Cost.). Contraddittoriamente si richiede invece, nel contempo, anche il rispetto del numero di voti conseguiti dalle liste e dalle coalizioni di liste ad essi riconducibili (oltre alla «presenza di almeno un rappresentante per ciascun Gruppo e di un rappresentante per le minoranze linguistiche») (art. 1 comma 2).
In quarto luogo tutta la procedura di esame e di approvazione delle leggi costituzionali “figlie” è sottoposta ad un «crono-programma» – così esplicitamente denominato nella relazione illustrativa – come se si trattasse di una qualsiasi legge ordinaria di particolare urgenza, e non della revisione della Costituzione (si ricordino sul punto le parole pronunciate dall’on. Perassi in Assemblea costituente: v. supra § 2 sub e). Anzi, a conferma dell’idea banalizzatrice del procedimento di revisione costituzionale, il Governo ha addirittura richiesto al Senato, per il d.d.l. cost. n. 813, la procedura prevista dall’art. 77 R.S., con conseguente dimezzamento di tutti i termini di esame nel procedimento di approvazione.
Al «crono-programma» si ispira infatti tutta la tempistica del procedimento di revisione prevista dall’art. 4 commi 1-4: il riferimento ai diciotto mesi per la conclusione dei lavori parlamentari (comma 1); l’obbligo, per il Comitato, di trasmettere «comunque» entro quattro mesi, un progetto di legge fra quelli assegnati «nel testo eventualmente emendato dal Comitato» (una sorta di trasmissione obbligatoria all’esame dell’Assemblea, allo stato dei lavori, del testo ancora non maturo, che si risolve non solo in una deroga al principio dell’esame in commissione previsto dall’art. 72 comma 1 Cost., ma anche in una forma di “ghigliottina” della fase di esame in seno al Comitato che solleva numerosi dubbi); l’obbligo dell’Assemblea della Camera di concludere l’esame entro i tre mesi successivi e l’obbligo dell’Assemblea del Senato di fare altrettanto (art. 4 comma 3); l’esplicita previsione di un “potere sostitutivo” di designazione coattiva da parte dei Presidenti di Assemblea, qualora uno o più Gruppi non procedano “propria sponte” alla designazione dei rappresentanti in seno al Comitato; infine la gravissima diminuzione da tre mesi ad uno dell’intervallo minimo che deve intercorrere tra la prima e la seconda deliberazione ex art. 138 comma 1 Cost. (art. 4 comma 3).
In quinto luogo, è bensì vero che nella relazione si sottolinea che i «progetti di riforma di legge di revisione costituzionale degli articoli di cui ai titoli I, II, III e V della parte seconda della Costituzione, afferenti alle materie della forma di Stato, della forma di Governo e del bicameralismo» (art. 2 comma 1) dovranno avere un contenuto «omogeneo e autonomo dal punto di vista del contenuto e coerente dal punto di vista sistematico» (art. 4 comma 2). Tuttavia, già a prima vista la legge costituzionale di revisione del titolo I non sarà soltanto una perché la riduzione del numero dei parlamentari costituisce un problema autonomo rispetto alla revisione del bicameralismo paritario. A questa prima riflessione, nella stessa logica, se ne aggiunge un’altra che fa ritenere ambiguo e comunque insufficiente limitarsi, nella legge costituzionale “madre”, a identificare il contenuto delle singole leggi costituzionali con la mera indicazione dei titoli I, II, III e V della parte seconda. D’altra parte la menzione di “super materie” come la forma di Stato e la forma di Governo certamente non aiuta in questo senso.
Infine l’ulteriore e (forse) più grave perplessità che solleva il d.d.l. cost. n. 813. Il quale, anziché limitarsi a prevedere, nella logica dell’art. 138 Cost., le possibili modifiche al numero dei parlamentari oppure al bicameralismo perfetto oppure quelle da apportare al rapporto Stato-Regioni ecc., attribuisce ad un solo Comitato per le riforme il potere referente contemporaneamente su aree tematiche amplissime (forma di Stato, forma di Governo e bicameralismo oltre a tutto ciò che potrebbe implicarsi dal contenuto dei citati titoli I, II, III e V) col rischio di ritrovarsi un domani, in ragione di accordi interni interpartitici, di fronte ad un’Assemblea con “pretese” costituenti, disposta quindi a negoziare una modifica costituzionale X con una modifica costituzionale Y, e l’una e l’altra con la riforma dei sistemi elettorali che, nel momento in cui scrivo, sembrerebbe essere divenuto il più importante dei progetti di legge indicati nell’art. 2 comma 1 d.d.l. cost. n. 813. La cui collocazione tra le materie rientranti nelle competenze del Comitato per le riforme costituzionali possiede un significato politico rilevantissimo ancorché distorcente nell’ottica della riforme costituzionali[32].
[1] E’ la tesi di fondo del mio saggio La causa della rigidità costituzionale, ora in A. Pace, Potere costituente, rigidità costituzionale, autovincoli legislativi, II ed., Cedam, Padova, 2002, p. 1 ss., passim
[2] V. ancora A. Pace, Potere costituente, cit., 79 ss., spec. 85 nota 179, 130, 276
[3] E.I. Sieyes, Opinione sulle attribuzioni e l’organizzazione del Giurì costituzionale proposta alla Convenzione nazionale il 2 termidoro anno III (1795), in Id., Opere e testimonianze politiche a cura di G. Troisi Spagnoli, tomo I, vol. II, Guffrè, Milano, 1993, 824 ss. Nella letteratura contemporanea C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, IX, Cedam, Padova, 1975, 1225 s.; A.A. Cervati, La revisione costituzionale e il ricorso a procedure straordinarie di riforma delle istituzioni, in Id., S.P. Panunzio e P. Ridola, Studi sulla riforma costituzionale, Giappichelli, Torino, 2001, 23 ss.; A. Pace, Potere costituente, cit., 91, 131, 149, 269.
[4] Secondo quanto da me ripetutamente sostenuto, una costituzione scritta è immodificabile perché così dispone il testo costituzionale oppure perché in essa non si allude all’esistenza di un procedimento di revisione. Nel primo senso v. ad es. la Costituzione dell’Impero di Etiopia del 1931. Nel secondo senso, erano, secondo J. Bryce, Costituzioni flessibili e rigide (Flexible and rigid Consitutions, 1901), trad. it. R. Niro, Giuffrè, Milano, 1988, 66, in nuce i Fundamental Orders of Connecticut (1638) e poi l’Instrument of Government di Cromwell (1653), le Chartes constitutionnelles francesi del 1814 e del 1830 (sulle quali v. già specificamente in tal senso A. de Tocqueville, La democrazia in America (De la démocratie en Amérique, 1835, vol. I, parte II, cap. VI, nota L, trad. it. a cura di N. Matteucci), Utet, Torino, 1968, 124 e nota L a p. 852, nonché «per lungo tempo» lo Statuto albertino del 1848 (nel senso della rigidità almeno fino al 1870, v. A. Pace, Potere costituente, cit., 57). La costituzione khomeinista dell’Iran (1979) non prevedeva la possibilità di revisione fino alla modifica del 1989, che introdusse il procedimento speciale di revisione (a riprova che la mancanza di tale norma implica la rigidità e non il suo contrario). A seguito di successive ricerche aggiungerei all’elenco delle costituzioni implicitamente rigide la Costituzione della Virginia del 29 giugno 1776, che era priva della clausola di revisione, diversamente dalle altre costituzioni settecentesche delle ex colonie inglesi. Per contro sono flessibili le costituzioni che attribuiscono allo stesso legislatore ordinario la possibilità della loro revisione. In questo senso v. la Costituzione spagnola (napoleonica) c.d. di Bayona (1808), forse la Costituzione dell’Unione sudafricana del 1909, sicuramente la Costituzione dell’Unione sudafricana e del 1961 nonché il Constitution Act della Nuova Zelanda (1852) come modificato dal Constitution Amendment Act (1947). Sul punto v. A. Pace, Potere costituente, cit., 9 nota 7, 41 nota 78, 148 nota 99.
[5] Art. VI della Costituzione polacca del 3 maggio 1791: «Volendo, da un lato, prevenire i cambiamenti sia violenti sia troppo frequenti alla nostra Costituzione nazionale; considerando, dall’altro, la necessità di perfezionarla, dopo aver sperimentato gli effetti di essa sulla pubblica prosperità, noi disponiamo che, al fine di rivedere e modificare la detta Costituzione, sia tenuta ogni venticinque anni una Dieta Costituzionale Straordinaria, secondo le modalità che saranno prescritte separatamente da una legge» (la successiva legge del 13 maggio 1791).
[6] Sul dibattito settecentesco relativo alla specialità del procedimento di revisione costituzionale, di talché esso costituisse la garanzia della costituzione, v. S.P. Panunzio, Le vie e le forme per l’innovazione costituzionale in Italia: procedura ordinaria di revisione, procedure speciali per le riforme costituzionali, percorsi alternativi, in A.A. Cervati, S.P. Panunzio e P. Ridola, Studi sulla riforma costituzionale, Giappichelli, Torino, 2001, 75 ss.
[7] T. Paine, I diritti dell’uomo (Rights of Man, 1791-1792), trad. it. M. Astrologo, Ed Riuniti, Roma, 1978, 122 ss., 276 ss. E’ tuttavia evidente che il principio secondo cui ogni generazione «deve essere in grado di affrontare tutte le decisioni richieste dalle circostanze del suo tempo», se formulato senza alcuna limitazione, finisce per destituire di fondamento la superiorità della Costituzione. Ciò appunto accadeva nell’art. 28 della Costituzione giacobina del 1793 («Un popolo ha sempre il diritto di rivedere, riformare e cambiare la propria Costituzione…»), ma non negli artt. 1 ss. del titolo VII della Costituzione francese del 1791, che prevedevano limiti procedurali alle revisione.
[8] V. ad es. l’art. 139 Cost. it. e l’art. 79 comma 3 LFG.
[9] Con grande decisione, sul punto, v. C. Mortati, Concetto, limiti, procedimento della revisione costituzionale (1950), ora in Id., Raccolta di scritti, vol. II, Giuffrè, Milano, 1972, 15. Nello stesso senso v. A. Pace, Potere costituente, cit., 149, 269 ss. .
[10] Come sostenuto da Alf Ross nella prima versione del suo noto “paradosso”, sul quale v. criticamente A. Pace, Potere costituente, cit., 147.
[11] G.U. Rescigno, voce Deroga, in Enc. dir., vol. XII; Giuffrè, Milano, 1964, 303; G. Morbidelli, Le dinamiche della Costituzione, in Id, L. Pegoraro, A. Reposo, M. Volpi, Diritto costituzionale comparato, II ed., Monduzzi, Bologna, 1997, 138.
[12] In questo senso v. anche A. Cerri, voce Revisione costituzionale, cit., 6. Quanto alla gravità delle ipotesi che potrebbero verificarsi se si sostenesse la tesi contraria, un esempio potrebbe essere offerto dal d.d.l. cost. n. 2180 Sen., XVI leg., presentato alla Presidenza il 12 maggio 2010, col quale si intendeva dai sen. Gasparri, Quagliariello, Bricolo, Centaro e Benedetti Valentini di far approvare una legge costituzionale che, “in deroga e in rottura” dell’art. 3 Cost., avrebbe disposto la sospensione, per tutta la durata della carica, dei processi penali per fatti extrafunzionali commessi dal Presidente della Repubblica, dal Presidente del Consiglio e dai Ministri.
Ipotesi che, nell’impostazione data al problema delle rotture da C. Mortati, voce Costituzione (dottrine generali), in Enc. dir., vol. XI, Giuffrè, Milano, 1962, 192, sarebbe impensabile, in quanto «sono da ritenere ammissibili tutte quelle deroghe le quali non contrastino con i fini della Costituzione, ma anzi tendono a salvaguardarli di fronte ad eventi sopravvenuti, che senza una disciplina in deroga ne comprometterebbero la soddisfazione». Il che, come non è il caso delle deroghe all’art. 3 Cost., non è nemmeno il caso delle deroghe all’art. 138 Cost.
[13] C. Esposito, Costituzione, legge di revisione della Costituzione e “altre leggi costituzionali, nella Raccolta di scritti in onore di A.C. Jemolo, Giuffrè, Milano, 1962, 195: «…in Italia, ove non intervenga mutamento del testo costituzionale, le disposizioni che hanno base in proposizioni della Costituzione non sono definitivamente, stabilmente o generalmente abrogate, anche se, in via provvisoria, temporanea, puntuale possono essere contrastate». Il pensiero dell’Esposito era diversamente inteso dal compianto S.P. Panunzio, Le vie e le forme per l’innovazione costituzionale in Italia, cit., 99, secondo il quale le leggi di rottura, per Esposito, sarebbero state scorrette ma non invalide. A mio avviso, in quel passo Esposito sostiene che, ove la legge costituzionale non sia in revisione (e quindi non integri il testo della Costituzione), può essere in rottura, ma a patto che sia provvisoria, temporanea e puntuale. Il che si ricollega a quanto sosteneva C. Schmitt, Verfassungslehre, III ed., Duncker & Humblot, Berlin, 1928, 107. Quest’ultimo, a tal riguardo, parlava di provvedimenti (Massnahmen) nella forma di legge che, essendo votati con la maggioranza prevista dall’art. 76 della Cost. di Weimar, potevano porsi in contrasto con la stessa Costituzione (G. Anschütz, Die Verfassung des Deutschen Reichs, IV ed., Stilke, Berlin, 1933, 401 s.). Ciò è invece inammissibile alla luce del vigente art. 79 LFG, che consente solo modifiche al testo costituzionale. Sul punto ulteriori indicazioni in A.A. Cervati, La revisione costituzionale e il ricorso a procedure straordinarie, cit., 52 ss.
[14] Nonostante ciò, S.P. Panunzio, Le vie e le forme per l’innovazione costituzionale in Italia, cit., 101, riteneva non illegittima la l. cost. n. 1 del 1997, qualificandola “temporanea”. Ma temporanea in che senso? Per la durata del procedimento di approvazione (che è sempre temporaneo) o per i successivi effetti sull’ordinamento costituzionale? Che però non sono affatto temporanei.
[15] G. Morbidelli, Le dinamiche della Costituzione, cit., 138 s.
[16] G. Morbidelli, Le dinamiche della Costituzione, cit., 138 s.
[17] G. Ferrara, Costituzione e revisione costituzionale nell’età della mondializzazione, negli Scritti in onore di G. Guarino, vol. II, Cedam, Padova, 1998, 262 che si richiama a C. Mortati, Concetto, limiti, procedimento della revisione costituzionale, cit., 15 s.
[18] Sul punto v. A. Pace, Potere costituente, cit. 149 a proposito del paradosso del “primo” Ross, e del relativo quesito. Ross si chiedeva infatti se fosse legittimo elevare da tre quarti a quattro quinti la maggioranza degli Stati, prevista dall’art. 5 Cost. USA, per la modifica della Costituzione federale. La risposta non è evidentemente univoca. Diverge infatti se il valore da tutelare sia la sovranità dei singoli Stati oppure la rigidità della Costituzione.
[19] In tal senso mi sembra felice la deroga prevista nel combinato disposto dell’art. 4 comma 4 e dell’art. 5, secondo la quale, mentre il quorum per l’approvazione nella seconda deliberazione resta la maggioranza assoluta, la richiesta referendaria sarebbe possibile anche quando la seconda deliberazione sia avvenuta con la maggioranza dei due terzi.
[20] In questo senso A. Pace, Potere costituente, cit., 119 nota 39, 234, 241, 259. Contra v. invece A.A. Cervati, La revisione costituzionale e il ricorso a procedure straordinarie, cit. , 36, 68 nonché L. Paladin, Le fonti del diritto italiano, il Mulino, Bologna, 1996, 164 (sia pure con talune perplessità).
[21] Condivisibili critiche sul punto in G. Ferrara, Costituzione e revisione costituzionale nell’età della mondializzazione, cit., 258 ss. che giustamente ricorda la sconcertante proposta di istituire un’Assemblea costituente fatta dall’allora Presidente della Repubblica Francesco Cossiga nel messaggio alle due Camere del Parlamento del 26 giugno 1991. Se quell’iniziativa era fortemente criticabile perché evocare l’istituzione di un’Assemblea costituente equivale a sostenere la fine della Costituzione vigente, sollevano comunque perplessità le esternazioni presidenziali che anziché sollecitare leggi per l’attuazione della Costituzione ne caldeggino la riforma.
[22] V. in questo senso l’art. 168 Cost. sp. e l’art. 193 Cost. svizzera (2002) nell’interpretazione prudente della dottrina. Infatti secondo A. Auer, G. Malinverni, M. Hottelier, Droit constitutionnel suisse, vol. I, Staempli, Berne, 2000, 480, la revisione totale, in conseguenza della doverosa salvaguardia delle disposizioni cogenti del diritto internazionale (art. 193 comma 4 Cost. svizzera), non potrebbe mai pregiudicare le regole essenziali della democrazia, l’esistenza di libere elezioni, il rispetto del pluralismo politico, delle minoranze da parte delle maggioranze, dei dritti fondamentali e dell’indipendenza del potere giudiziario.
[23] V. sul punto A. Pace, Potere costituente, cit., 115 ss.
[24] In questo senso, in ordine temporale, v. A. Cerri, voce Revisione costituzionale, in Enc. giur. it., vol., XXXI, Ist. Enc. it., Roma, 1991, 2. ; Id, voce Revisione costituzionale, cit., aggiornamento, 2000, 6; A. Pace, La nuova Costituzione, ne la Repubblica, 4 giugno 1994, 10; Id., Problemi della revisione costituzionale in Italia, in Studi parl. pol. cost., n. 107, 1995, 14 s.; Id., Potere costituente, cit., 153 s.; E. Bettinelli, Referendum e riforma “organica” della Costituzione, in E. Ripepe e R. Romboli (cur.), Cambiare o modificare la Costituzione? Giappichelli, Torino, 1995, 273; Id., Avventure costituzionali e riforme costituzionali, in Dem. e dir., 1995, 42 s.; R. Romboli, Le regole della revisione costituzionale, in E. Ripepe e R. Romboli (cur.), Cambiare o modificare la Costituzione? cit., 91 s.; R. Tarchi, Leggi costituzionali e di revisione costituzionale, in G. Branca e A Pizzorusso (cur.), Commentario della Costituzione, Zanichelli – Foro italiano, Bologna – Roma, 1995, 281; M. Dogliani, Potere costituente e potere costituito, in Alternative, 1996, n. 4, 65 s.; A.A. Cervati, La revisione costituzionale, in L. Lanfranchi (cur.), Garannzie costituzionali e diritti fondamentali, Ist. Enc. it., Roma, 1997, 133; M. Volpi, voce Referendum (dir. cost.), in Dig. Disc. Pubbl., vol. XII, Utet, Torino, 1997, 516; G.U. Rescigno, Intervento in S. Panunzio (cur.), I costituzionalisti e le riforme. Una discussione sul progetto della Commissione bicamerale, Giuffrè, Milano, 1998, 478; C. Pinelli, Intervento, in S. Panunzio (cur.), I costituzionalisti e le riforme, cit., 486 s. Contra v. invece G.M. Salerno, voce Referendum in Enc. dir., vol. XXXIX, Giuffré, Milano, 1988, 230 s.; A. Baldassarre, Il referendum costituzionale, in Quad. cost., 1994, 254 ss.; S.P. Panunzio, Le vie e le forme per l’innovazione costituzionale in Italia, cit., 158 ss.;
[25] K. Loewenstein, Über Wesen, Technik und Grenzen der Verfassungsänderung, cit. da A.A. Cervati, La revisione costituzionale, cit., 45.
[26] Ass. cost., seduta pom. 3 dicembre 1947, ne La Costituzione della Repubblica nei lavori preparatori della Assemblea costituente, vol. V, Camera dei deputati, Roma, 1970, 4323: «L’idea pratica che è stata di guida nel disciplinare questa materia è questa: di far sì che vi sia una ponderata riflessione quando si procede ad una atto così importante. Da ciò l’adozione del sistema delle due letture a distanza di un certo periodo di tempo: tre mesi, si propone nel testo. L’esperienza dimostra che questo espediente è utile. Ciascuno di noi potrebbe porsi questa domanda: se io fossi chiamato a votare a distanza di tre mesi qualche articolo della Costituzione che ho già votato, darei il medesimo voto? Lasciare un certo margine alla riflessione è utile».
[27] Per un raffronto delle due procedure speciali di revisione v. S.P. Panunzio, Le vie e le forme per l’innovazione costituzionale in Italia, cit., 85 ss.; A. Pizzorusso, La Commissione parlamentare per le riforme costituzionali. Prime osservazioni, negli Studi in onore di L. Elia, Vol. II, Giuffrè, Milano, 1999, 1344 ss., spec. 1351 ss.
[28] A. Cerri, voce Revisione costituzionale, in Enc. giur. it., aggiornamento, 2000, 6.
[29] …dal gruppo di lavoro sulle riforme costituzionali, istituito il 30 marzo 2013 dal Presidente della Repubblica, composto da Mario Mauro, Valerio Onida, Gaetano Quagliariello e Luciano Violante. L’idea approvata dalla maggioranza del gruppo di lavoro era quella di «una commissione redigente mista costituita, su base proporzionale (?!), da parlamentari e non parlamentari» avente funzione di redigere il testo di riforma distinto per singole parti omogenee. Il testo sarebbe stato approvato dalle Camere «articolo per articolo senza emendamenti», ma il Parlamento, prima di votare, avrebbe potuto «approvare ordini del giorno vincolanti per la Commissione stessa, per chiedere (e ottenere) la correzione del testo». Questa proposta non venne giustamente condivisa dal prof. Valerio Onida che sottoscrisse una motivata riserva sul punto.
[30] Nella relazione del gruppo di lavoro si parlava infatti di una commissione redigente. È stato il Presidente del Consiglio on. Enrico Letta, nelle sue dichiarazioni programmatiche del 29 aprile, a chiamarla “Convenzione”: un nome ed un concetto che per circa un mese ha raccolto soltanto critiche. Tra le molte v. ad es. L. Carlassare, Intervista a il Manifesto, 3 maggio 2013; M. Volpi, La Convenzione dei “papi” costituenti, ivi, 3 maggio 2013; A. Pace, I pericoli nascosti nella Convenzione, ne la Repubblica, 6 maggio 2013; G. Azzariti, Una convenzione per la democrazia costituzionale, ne il Manifesto, 10 maggio 2013; A. Pace, Il fantasma della Convenzione, ne la Repubblica, 16 maggio 2013; S. Rodotà, Intervista a la Repubblica, 16 maggio 2013; G. Zagrebelsky, Intervista a la Repubblica, 18 maggio 2013; Id., “Non è cosa vostra”, discorso pronunciato a Bologna in Piazza Santo Stefano il 2 giugno 2013 su iniziativa dell’associazione “Giustizia e libertà”.
[31] La “terza” Commissione bicamerale ipotizzata dal compianto S.P. Panunzio, Le vie e le forme per l’innovazione costituzionale in Italia, cit., 94, e cioè quella prevista dal d.d.l. cost. n. 813, non ha perciò seguito quegli aspetti che egli riteneva i più significativi delle precedenti due.
[32] Su quest’ultimo punto v. D. Piccione, Cultura della revisione costituzionale e regolamenti parlamentari, di prossima pubblicazione su www.costituzionalismo.it.