Gianfranco Pagliarulo ricorda Carlo Smuraglia

di Gianfranco Pagliarulo, Convegno annuale di Salviamo la Costituzione, Roma 22 novembre 2022

Ricordo di Carlo Smuraglia, 25 novembre 2022

Ringrazio l’associazione e il suo presidente Gaetano Azzariti per l’onore che mi è stato concesso. Ricordare Carlo Smuraglia. Ci ha lasciato il 30 maggio di quest’anno. Era nato ad Ancona 99 anni prima. Da non molti giorni il suo nome è inciso sul marmo del Famedio di Milano, il tempio laico del cimitero monumentale dedicato alla memoria di personalità che hanno lasciato un segno nella storia della città e dell’intero Paese.

In quel luogo in tanti riposano. C’è Alessandro Manzoni, Leo Valiani, Salvatore Quasimodo, Carla Fracci, Dario Fo con Franca Rame, Alda Merini. Il nome di Carlo è accanto a tanti altri: Aldo Aniasi, Elio Vittorini, Giovanni Pesce, il cardinale Carlo Maria Martini, Enzo Biagi, Umberto Eco, Nedo Fiano, Rossana Rossanda, Mariangela Melato, Luciano Pavarotti, Gino Strada, Valerio Onida, solo per citarne alcuni.

Sono stati in molti a richiedere l’iscrizione di Smuraglia in questo particolare Pantheon.

Lo avevo proposto durante l’orazione funebre, dando voce a una piazza affollatissima, a coloro che cantavano Bella Ciao in suo onore per esprimere affetto, vicinanza, dolore.

Carlo è stato tante cose. com’è risaputo, iniziò da partigiano, e tale rimase tutte la vita. Lo fu anche quando contribuì a fondare l’associazione “Salviamo la Costituzione” e ne fu poi protagonista.

Avevo conosciuto Carlo a Milano all’inizio degli anni Settanta. Lo ho ritrovato a Roma dal 2014. Da quel momento le nostre strade non si sono più separate. Presidente nazionale dell’ANPI fino al novembre 2017, poi presidente emerito.

Carlo era un uomo esile, minuto, tanto più quanto più si caricava di anni. Ma la sua personalità contraddiceva il suo fisico. Una personalità particolare, fortissima, tenace, ostinata, sulle questioni essenziali irriducibile. Ed era così senza mai alzare la voce, nella continua propensione non solo a vincere, ma specialmente a convincere. Questo rigore era, per così dire, la manifestazione sociale di una scrupolosità morale, interiore, del tutto assente nel tempo che viviamo. Ed, aggiungo, il rigore si accompagnava a spirito antiretorico manifesto nei suoi discorsi, nei suoi scritti, direi specialmente nel suo stile di vita. Lui, partigiano combattente sulla Serra San Quirico dal 1° novembre 1943 al 18 luglio 1944, data della Liberazione di Ancona, di quell’etica partigiana era espressione. Dell’etica, non dell’epica, a cui era francamente poco interessato, alle volte infastidito. Contro ogni oleografia ricordava e disegnava la Resistenza come una dolorosa necessità subita da uomini – e donne anche – normali, certo coraggiosi, per scacciare i tedeschi e sconfiggere i fascisti, ed era attento a ricostruirne ogni aspetto, cioè non solo la Resistenza sulle montagne, nelle valli e nelle città del nord, ma anche quella dei militari fuori d’Italia, dei meridionali. E poi quella civile, sociale. Dunque la Resistenza non solo come fatto armato, ma come percorso unitario di formazione civile di tanti italiani, quel percorso che portò alla Repubblica e alla Costituzione.

Carlo era molto amato nel mondo dell’ANPI che, vedete bene, non è poca cosa, perché riguarda ben più di 100mila persone con le loro famiglie. Era amato perché era un esempio di militanza. Mi pare di vederlo col suo trolley e d’inverno col suo inseparabile impermeabile bianco, quando arrivava da Milano alla sede nazionale dell’ANPI per poi ripartire per Palermo, o per Torino, o per chissà dove, nel suo svolgere compiutamente la missione di presidente nazionale.

Ancor di più questo impegno si intensificò durante la campagna referendaria del 2016. Aveva detto delle difficoltà, degli ostacoli, dei problemi che avremmo avuto in quella circostanza. Aveva disegnato la nostra strada con queste parole: dovremo scalare una montagna con le mani. La scalammo, grazie a lui. Vedete, penso che oggi ciò che manchi nella vita civile e in particolare nella vita politica sia la categoria dell’esempio, meglio, dell’esempio positivo. Non si tratta solo di un vuoto morale, cioè del come si dovrebbe essere. Mancando l’esempio positivo, non ci si sente più rappresentati, si crea un vuoto fra istituzioni e cittadini, si semina sfiducia sulla capacità della politica di trasformare l’esistente, si può smarrire il senso dell’utilità della partecipazione democratica a cominciare dal recarsi alle urne.

La bocciatura della riforma costituzionale al referendum del 2016 fu in parte rilevantissima merito suo, del suo – appunto – esempio, che aveva trascinato tutte le strutture dell’ANPI, tantissime strutture dell’associazionismo democratico, tante personalità, tante cittadine e cittadini a impegnarsi affinché non passasse quella riforma. Non passò.

Oggi, a sei anni di distanza, ancora una volta siamo davanti ad una sfida per alcuni aspetti ancora più complessa: l’esplicita volontà di questo governo di riformare la Costituzione in senso semipresidenzialista e di dar vita al progetto di alcune regioni di autonomia differenziata che non renderebbe più universale la fruizione di determinati servizi, differenziando i diritti a seconda dei territori, incrementando il già drammatico Gap fra il nord e il sud del Paese.

Oggi si sente spesso parlare e ancor più spesso straparlare di patrioti, ove sovente si confonde il patriottismo col nazionalismo, e si sentono – e penso sentiamo in tanti – i pericoli che corre una Costituzione peraltro in larga parte disattesa. Ricordo a proposito le ripetute affermazioni di Carlo sulla necessità di un patriottismo costituzionale, cioè di un sentimento razionale – scusate l’ossimoro – che leghi la bellezza dell’amor di patria al patto condiviso che ci fa cittadini, e in questa misura scacci ogni possibilità che la bellezza venga sfregiata dai tanti mostri che ci circondano: il nazionalismo, il bellicismo, l’autoritarismo, il razzismo e, ovviamente, il fascismo. Per questo siamo tutti patrioti, ma di quel patriottismo che ci è stato insegnato dai partigiani, e tanto più lo siamo davanti a una crisi della democrazia che invoca l’attuazione della Costituzione.

Carlo aveva due stelle polari, l’antifascismo e la Costituzione, cioè la traduzione di un sistema di valori in un patto fondamentale che ridisegna la società e lo Stato. Credo che sia ragionevole affermare che la chiave del suo impegno civile, che è stato la linea rossa della sua biografia e si manifestato in tutta la sua potenza nel tempo in cui ha diretto l’ANPI, sia da ricondurre a quella che chiamava la memoria attiva, cioè la capacità di proporre i valori essenziali della Resistenza, quei valori che si incarnarono nei principi costituzionali, come strumenti per l’azione e come chiave per disegnare un orizzonte di trasformazione del Paese. Questo orizzonte era ed è la democrazia che si espande, che rigenera se stessa in un continuo accrescersi di qualità e di quantità nelle forme previste dalla Costituzione, e cioè nell’intreccio fra democrazia rappresentativa e partecipazione popolare, nella piena applicazione, che oggi non avviene, dell’art. 47 della Costituzione, cioè nel rapporto fra cittadini, democrazia, libertà e partiti.

Accenno appena, fra i tanti, ad alcuni punti alti del suo impegno civile: il protocollo Anpi-Ministero dell’Istruzione, l’Atlante delle stragi nazifasciste, l’avvio della ricerca storiografica per il contributo del Mezzogiorno alla lotta di Liberazione, e poi ancora la legge per il recupero dei detenuti, l’impegno per la tutela della salute nei luoghi di lavoro e dell’ambiente. Potrei continuare a lungo. Eppure già da questi accenni si coglie la sensibilità di Carlo su tre questioni: la formazione civile, il lavoro come fondamento costituzionale della Repubblica, l’attenzione agli ultimi come codice morale, ma anche giuridico: basti pensare all’art. 27 della Costituzione in merito alla responsabilità penale. In due parole, Carlo ha rappresentato la vocazione storica della migliore sinistra italiana, il meglio del giuslavorismo, la difesa intransigente della democrazia, l’antifascismo. Ma non è solo questo il lascito di Carlo. Giustamente il presidente Azzariti, intervenendo in memoria di Carlo il 12 ottobre, ha sottolineato un altro messaggio che ci ha donato Carlo. “Non bisogna arrendersi mai – ha detto Azzariti – e bisogna saper parlare ai giovani, perché sono questi i meno compromessi o appesantiti dalle colpe del passato, dai fallimenti delle generazioni precedenti”. È quello che oggi più di ieri proviamo a fare, che oggi più di ieri dobbiamo fare.

Sul libretto con cui ogni anno il Comune di Milano pubblica le motivazioni delle nuove iscrizioni al Famedio è scritto fra l’altro: “Smuraglia è stato un uomo che ha scelto da che parte stare, e ha speso la sua vita per la difesa dei valori e delle cause nei quali ha creduto”. Mai come oggi questa eredità ci serve perché – non nascondiamocelo – siamo nel tempo più buio dalla Liberazione. Ma, come Carlo, abbiamo scelto da che parte stare e, come Carlo, rifiutiamo qualsiasi retorica e qualsiasi irrazionalità.

Quando si dimise da presidente nazionale per la sua età avanzatissima, fu eletto, come ho detto, presidente emerito, carica non statutaria creata per rappresentare un riconoscimento dovuto. La proposta fu approvata per acclamazione. Così Carlo ha percorso l’ultimo miglio del suo impegno civile, sociale e politico.

In un tempo – diciamolo – di nani, la figura di Carlo Smuraglia è sicuramente quella di un gigante. Ci lascia un vocabolario di parole fra loro inseparabili: Resistenza, lavoratori, democrazia, uguaglianza, Costituzione, antifascismo.

Assieme, ci consegna un metodo, che è anche uno stile: un rigore morale indefettibile e incontaminato, che è, a ben vedere, una lezione civile e politica, perché si muove in direzione ostinata e contraria rispetto al tempo della politica che viviamo. E rimane il suo insegnamento più prezioso.

Crediti immagine: Camera dei Deputati (CC BY-ND 2.0) Il Presidente dell’ANPI, Carlo Smuraglia – Lezioni di Resistenza – 6 maggio 2016.